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							La notte non era trascorsa nel migliore dei modi… l’idea di passarla nella 
							piccola roulotte vicina al chiaro non era stata felicissima.  
							Eravamo andati a dormire presto, affondati nei nostri sacchi a pelo, dopo 
							la solita cena giù alla trattoria di Sergio.  
							Credo che il sangiovese, versato generosamente fra una chiacchiera e l’altra, 
							ci avesse procurato un inopportuno stato euforico. 
  
							
							Eravamo entrati silenziosamente in roulotte verso le dieci, avevamo sistemato 
							tutte le nostre cose vicino alla porta, preparato la caffettiera per una veloce 
							colazione l’indomani e ci eravamo coricati pieni di speranze!  
							Le innumerevoli zanzare e l’ansia per la prima tesa alle anatre della stagione 
							ci avevano praticamente impedito di chiudere occhio. 
							Avevamo parlato a lungo, ricordato le stagioni passate, meditato sul tempo che 
							sembrava cambiare quella notte; spesso Ubaldo riprendeva il discorso chiedendomi 
							se dormivo, mi faceva notare che stava iniziando a piovere, che il vento stava 
							crescendo, si preannunciava una cacciata memorabile, poi credo ci fossimo 
							addormentati,  nel mezzo di un discorso, verso mezzanotte.  
							La sveglia aveva iniziato a suonare alle due,  eravamo schizzati come molle dalle 
							brande, coi muscoli intorpiditi dalle posizioni innaturali e dal sonno , avevamo 
							acceso il caffè, consumato un poco di latte e qualche biscotto, raccolto le nostre 
							cose… eravamo pronti !!
  
							
							Mi metto in spalla il vecchio sacco di juta carico di stampi, il fucile e il 
							tascapane con la merenda; prendo la cassetta delle anatre e insieme ci dirigiamo 
							alla barca.  
							Ubaldo apre la vecchia catena che la tiene ancorata al pontile, la fa scorrere 
							silenziosamente sull’acqua fino a farla uscire da sotto la tettoia, saliamo, 
							prima io poi lui, mi passa le cose una ad una, quasi in un rito sacro, come se 
							tutto fosse scritto in un codice.  
							La notte è veramente buia, sta piovendo forte e il vento ci costringe a compiere 
							un giro più largo del solito per arrivare alle botti, vogliamo evitare di averlo 
							in faccia perché la fatica, con la barca così carica, sarebbe troppa. 
							Me ne sto seduto a prua, mi copro il viso col cappuccio della mantella, ascolto 
							le anatre che partono, alcune vicine, altre lontane, ci hanno sentiti. 
  
							
							Ubaldo imbocca il canale che ci porta alla piccola piazzola, io scendo e inizio a 
							preparare l’appostamento. Lui prosegue, nel buio, muovendo la pertica con gesti 
							lenti per limitare al massimo lo sciabordio. La pioggia è aumentata ancora, 
							percepisco appena il tonfo sordo degli stampi quando cadono in acqua. Siamo 
							solo ai primi di ottobre e il passo vero e proprio non è ancora iniziato, per 
							questo ieri sera abbiamo deciso di non mettere fischioni e moriglioni nel gioco, 
							cercheremo di insidiare le numerose alzavole e i germani che hanno nidificato in 
							queste zone.  
							Dopo una ventina di minuti Uby ritorna, il “gioco” è fatto; tolgo le anatre vive 
							dal sacco, le lego alle balze e inizio a metterle in acqua, una alla volta, 
							con la solita disposizione: il maschio vicino alle botti,  le due femmine più 
							aperte, una a sinistra e l’altra a destra rispetto all’appostamento. 
  
							
							Il tempo è pessimo. 
							Abbiamo finito, sono quasi le cinque, considerata la pioggia, siamo 
							abbondantemente in anticipo, non ci resta che aspettare l’alba accucciati 
							nelle tine. 
							In questi momenti, in queste lunghe attese, i ricordi di precedenti esperienze 
							tornano a galla, si accavallano alle poche certezze e alle molte speranze che 
							questo tipo di caccia ti può dare. Come ogni volta rimango sospeso in una strana 
							dimensione sensoriale, lascio che il mio cervello vaghi, una piuma in balia del 
							vento, ma i sensi allertati pronti a percepire un rumore, un borbottio. Qualche 
							frase sussurrata al mio socio, sulla disposizione degli stampi, sulla direzione 
							del vento e così si aspetta “l’alba piccola”.
  
							
							Improvvisamente una fischiata d ’ali, nel buio, mi riporta alla realtà, prendo 
							il richiamo d’osso e inizio a chiamare.  
							Prii prii-priii…  un branco di pazzetti mi passa sopra la testa, è ancora buio e 
							riesco a malapena a riconoscerli, sono passati veramente vicini! Ricomincio a 
							fischiare, stanno credendo al gioco e adesso bisogna insistere, stanno girando 
							in cerchi sempre più stretti. Ubaldo mi avverte che si sono buttati, sono lontani 
							e non riusciamo a vederli.  
							Decidiamo di aspettare prima di ricominciare a chiamarli, adesso rischiamo di 
							farli avvicinare e non riuscire a spararli. E restiamo in un silenzio religioso, 
							parlandoci a cenni, per almeno una decina di minuti, li sentiamo rispondere 
							spesso, ma il rumore della pioggia non ci permette di capire dove siano. 
  
							
							Uby è sempre più proteso fuori dalla tina, sta strabuzzando gli occhi nel 
							tentativo di cogliere l’onda sull’acqua. Le anatre “parlottano” piano, lui 
							mi indica qualcosa con la mano, io purtroppo non riesco a cogliere nulla. Poi 
							improvviso lo sparo, il lampo, il boato, l’adrenalina, Uby li vedeva… mi alzo, 
							di scatto, una scarica abbatte i due che stanno volando via. Ci guardiamo, come 
							tutte le volte, sorridenti e tremanti, come tutte le volte... esco dalla tina, 
							prendo la barca e li vado a raccogliere. Sono quattro, due li ha abbattuti il 
							mio socio col primo sparo, li liscio un poco e li metto nella cacciatora.
  
							
							Mi affretto a rientrare, sta a malapena albeggiando e la giornata promette bene. 
							Mi riavvolgo nella mantella. La pioggia continua a cadere violenta, ci impedisce 
							di cogliere i rumori, e noi ci sentiamo completamente fuori dal tempo.
						
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