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Quel che resta oggi della caccia acquatica in Italia di Giuseppe Renella
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Resto lì, incantato per ore, ogni volta che qualche parente o conoscente, giunto alla fine della sua carriera venatoria
per età avanzata, mi racconta episodi di caccia in palude appartenenti a più di mezzo secolo fà.
Mi sembra di trovarmi nel pieno di quei racconti, respirando odore di palude, camminando per sconfinate distese di
acquitrini, con stormi di anatre che volteggiano sulla mia testa, pavoncelle intente a pasturare e saettanti beccaccini
che tagliano l’aria come fulmini.
Finiti i racconti ritorno tristemente alla realtà del 2011. Perché non abbiamo più la caccia che avevamo prima,
che cos’è che è cambiato? Beh faremo prima a dire che cos’è che non è cambiato in tutti questi anni.
Come tutti noi ben sappiamo, ogni forma di vita riguardante la flora e la fauna, necessita di un proprio habitat.
Nel caso specifico, mi riferisco alle zone umide.
Per zone umide si intende luoghi naturali, dove sosta in maniera
permanente o temporanea l’acqua, del tipo palude, pantano, acquitrini, torbiere, distese d’acqua naturali o
artificiali, ferma o corrente, dolce, salata o salmastra e acque costiere fino a sei metri di profondità con la
bassa marea. Queste zone garantiscono la sopravvivenza di numerose specie animali e vegetali, oltre che tutelare
la biodiversità, mantenimento e regolazione delle falde freatiche, regolazioni di maree costieri, regolazioni
delle acque in piena e del microclima locale.
Nel caso della caccia, queste zone in Italia forniscono un serbatoio indispensabile per la sosta migratoria, lo
svernamento e la riproduzione di anatidi, limicoli, trampolieri caradriformi ecc., garantendo ai cacciatori,
votati a questo tipo di pratica venatoria, un sicuro prelievo, sempre nel rispetto delle norme, un’accessibilità
comune ma soprattutto un ricambio se non un aumento della ricchezza faunistica. Il tutto è stato rovinato dalla
parola “progresso”.
Attualmente in Italia abbiamo circa 190.000 ettari di superficie formata da zone umide, di cui 140.000 circa lungo
le coste. Basta pensare che questa superficie è solo un terzo di quelle esistenti nel dopoguerra. Infatti proprio
nel dopoguerra tantissime di queste zone sono state distrutte dalla famosa bonifica, perché esse erano ritenute
inutili alla produttività agricola e per di più pericolose per la malaria.
Nel corso degli anni a far compagnia
alla bonifica si sono messe le agricolture e le forme di acquaculture intensive, quantità indecifrabile di cemento
per quanto riguarda le costruzioni, specialmente nelle zone turistiche, che vedono più da vicino le zone umide, una
non corretta gestione del territorio da parte di persone incompetenti, facendo in modo che molti territori rimanenti
si atrofizzassero e non ultimi, problemi legati all’inquinamento da parte di scarichi nei corsi d’acqua di materiale
chimico di industrie, grandi prelievi d’acqua, inquinamento acustico, inquinamento luminoso ecc.
Fortunatamente là dove qualche pozzanghera di acqua e qualche prato allagato è rimasto, hanno fatto oasi o area
protetta. Per chi invece aveva nascosto la speranza del mare o del fiume, ci ha pensato la legge quadro.
Signori miei, la caccia acquatica in Italia si riduce a qualche laghetto artificiale chiamato appostamento fisso,
a grandi distese di acqua artificiali chiamate valli private e qualche riserva dove si può trovare qualche laghetto
con anatre germanate su richiesta ed in qualche fortunatissima zona invece rimane qualche briciola solo per i
residenti. Ovviamente queste possibilità venatorie acquatiche ultime citate, fanno si che solo pochi eletti possono
frequentarle, mentre per tutti i cacciatori italiani resta invece la responsabilità da parte dell’opinione pubblica
di essere assassini e di aver distrutto tutto.
Giuseppe Renella
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Giuseppe Renella classe 1979, campano di Acerra, attualmente impiegato in un società di telecomunicazioni.
Ha fatto della caccia agli acquatici uno stile di vita, che ama e cura nei minimi particolari: dai richiami vivi, agli appostamenti
ai fucili ed alle cartucce che si carica da solo.
Fin da piccolo segue parenti ed amici nelle forme più svariate di caccia a palmipedi e trampolieri fino al fatidico 1999
anno in cui prese la "sua" licenza di caccia
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