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Come eravamo: la caccia dal barchino di Stefano Landoni
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Quando l’amico Paolo Bocchini mi ha chiesto un pezzo sul “pescino” ho dovuto barare: che ne so io del pescino? Ci ho cacciato poco
dal pescino, veramente poco.
Ma non potevo rinunciare, ché i miei ricordi di bambino ritornano sempre lì, sulla riva del lago, al tepore della stufa a legna
nella “casetta”, ad osservare gli adulti che salivano sul pescino perché le anatre selvatiche si erano buttate nel gioco e allora
bisognava andare a sparargli fino in mezzo al lago. C’era un senso di distanza che aumentava il mistero ed il fascino: li vedevo
partire, li vedevo tornare con le prede, ma tutto il tempo che intercorreva nel mezzo era dedicato solo all’immaginazione.
E un giorno sul pescino, ci sono salito anch’io; prima come addetto alle “palette”, poi finalmente sul davanti, col fucile stretto
tra le mani.
Senza scomodare troppo Lorenz, posso affermare di avere ricevuto il mio “imprinting” venatorio prima ancora di mettere piede sul
pescino, vivendone la pratica venatoria dall’esterno, di riflesso da mio padre.
Il pescino (detto anche “pesìn”) è un’imbarcazione bassa, stretta e lunga fino a 8 metri, di aspetto filante, dal fondo piatto,
leggermente arrotondato, che veniva verniciata in grigio-verde per assomigliare ai colori invernali dell’acqua del lago.
Poteva essere spinto in due modalità distinte: in assetto normale (di crociera, si potrebbe dire) si usavano una o due coppie di
remi, con scalmi sollevati, in modo che il rematore fosse in piedi e guardasse verso la direzione di marcia; in assetto di caccia,
invece, remi e scalmi venivano abbassati e posizionati longitudinalmente alla barca, i cacciatori si sdraiavano supini spingendo
la barca con una coppia di eliche (che nel tempo hanno sostituito le “palette”, pur mantenendone il nome) che venivano manovrate
dall’interno. Tale configurazione andava a migliorare quella precedentemente utilizzata, coi cacciatori proni, posizione decisamente
più scomoda ai fini dello sparo e che necessitava di una paratella di vegetazione per nascondere il vogatore.
Un pescino sospinto abilmente, dando sempre la prua ai selvatici posati, riusciva, grazie ai pochi centimetri con cui sporgeva dalla
superficie, a non destare sospetto in questi e portava i cacciatori a poter tirar loro da distanza ragionevole; la posizione supina,
consentiva, inoltre, di tirare agevolmente sia a fermo, sia al volo stando seduti.
Il gioco non si discostava molto da quelli utilizzati nelle altre cacce di appostamento agli acquatici, essendo composto da stampi e
richiami vivi in misura variabile a seconda degli ambienti, delle necessità e delle tradizioni locali. Era necessario scegliere una
posizione a terra, ove il gioco fosse visibile, onde poter scorgere i selvatici posarsi, oppure da cui poter verificare con l’ausilio
di un binocolo, che qualche anatra non si fosse precedentemente già posata.
Verificatasi tale circostanza, non restava che caricare i fucili e prepararsi all’avvicinamento: un primo tratto, veloce, a remi,
fino ad una distanza tale da non insospettire le possibili prede, poi giù, sdraiati, a “palettare”.
Lentamente, ma non troppo.
La caccia dal barchino è nata in legame all’utilizzo delle spingarde, coi fucili relegati al compito di ribattere eventuali feriti.
Successivamente al divieto dell’utilizzo di calibri superiori al 12, il barchino fu utilizzato nelle medesime modalità, dovendo
però diminuire la distanza di tiro utile e, quindi, di avvicinamento. Oggi, tale pratica, appartiene alla storia, essendo stata
proibita dall’attuale normativa in materia venatoria.
E se avrete la fortuna di ascoltare i racconti di chi ha trascorso una vita a cacciare anatre, soprattutto al Nord Italia, non
vi mancherà l’occasione di rivivere episodi di caccia dal barchino.
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Stefano Landoni nasce, anagraficamente e venatoriamente, tra le rive dei laghi lombardi della Provincia di Varese.
Appassionato frequentatore di web-communities di argomento venatorio, è tra i Consiglieri fondatori dell'associazione
ANGRA Onlus.
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